L’industria della moda è una potente industria culturale

Aggiornato a:
21 Maggio 2024

“L’industria della moda è una potente industria culturale”
A cura della classe IIIB dell’Istituto Scaruffi Levi Tricolore di Reggio Emilia.

Per la prima volta a Reggio, lo Scaruffi discute di moda

Spoiler: la moda sostenibile al 100% non esiste, parola di esperto. Lo abbiamo scoperto in un incontro organizzato presso la sede centrale dello Scaruffi. Ma andiamo con ordine. Durante le ore di attualità, abbiamo parlato di fast fashion. Siamo partiti da pagine del web, da articoli di cronaca fino alla visione di ”JUNK – Armadi pieni”, la docu-serie coprodotta da Will Media e Sky Italia. Il tema ha acceso subito il nostro interesse e abbiamo deciso di contattare chi lavora per contrastare questo fenomeno. E così abbiamo organizzato presso l’Aula Magna del nostro istituto, un workshop con Giorgio Fermanelli, Education & Training Manager del design studio @wrad_living e Michela Finocchiaro, Junior Communication Specialist. Ma che cosa si intende col termine fast fashion? È la moda veloce, quella che ha rivoluzionato il nostro modo di vestirci e di comprare; quella che consente di acquistare vestiti al passo con la moda del momento e a prezzi convenienti. Anzi, convenientissimi, tanto che siamo invogliati a comprare ben oltre lo stretto necessario. Giorgio ci ha condotto in un percorso a partire dal concetto di sostenibilità, che è una parola ormai entrata nel linguaggio comune, ma il cui significato a volte sfugge. Poi abbiamo allargato il discorso, soffermandoci sugli effetti della produzione tessile, sia in termini di impatto ambientale, che di impatto sulla salute e sull’economia. E qui abbiamo scoperto che il fast fashion è un vero dramma, che affonda le radici già in un lontano passato, ma che compare sulla scena in particolare dopo la tragedia in Bangladesh: il 24 aprile del 2013 un edificio commerciale di 8 piani crollò, provocando la morte di migliaia di persone. Erano lavoratori di vari marchi tessili, che avevano segnalato le condizioni della struttura, ma a cui era stato impedito di interrompere la produzione. E questo fu per loro fatale.

Oggi di fast fashion si parla, ma forse ancora troppo poco, e con poca consapevolezza. Certamente l’industria della moda è l’industria culturale più potente oltre a quella della musica, che influenza le nostre scelte e ci rende consumatori interessanti. Per noi i vestiti sono come una corazza, ci servono per nasconderci o per mostrarci, per esprimerci o per mimetizzarci. Anche i colori che scegliamo parlano di noi. Ma per ogni scelta c’è un prezzo da pagare. E così abbiamo scoperto che molti dei capi che noi stessi indossiamo spesso contengono sostanze tossiche e nocive, per la nostra salute e per l’ambiente: primi tra tutte i PFAS, sostanze chimiche permanenti.

Insomma, da dire ci sarebbe tanto, e tanto resta da fare. Da dove cominciare? Da un consumo più consapevole delle risorse, da una scelta più attenta delle cose che compriamo, e da un ricircolo virtuoso delle cose che non ci servono.

Qualche dato:
– 40mila tonnellate i vestiti ammassati nel deserto di Atacama, in Cile
– Ogni anno escono 72 collezioni di moda (una volta erano due: autunno/inverno; primavera/estate)
– il 75% dell’acqua viene persa durante la filiera produttiva
– 3800 i litri di acqua per produrre un paio di jeans (salgono anche a 9000 litri per un jenas colorato o tinteggiato)
– 2700 litri di acqua per una t-shirt in cotone
– 25% dei vestiti prodotti rimane invenduto

Per saperne di più:
– https://www.greenpeace.org/italy/storia/22479/fast-fashion/
– https://www.geopop.it/dove-finiscono-i-vestiti-del-fast-fashion-la-discarica-nel-deserto-di-atacama-in-cile/

Deserto di Atacama, Cile

Crollo del Rana Plaza, 24 aprile 2013, Bangladesh: 1134 morti; 2515 feriti

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